Sola andata per Darjeeling

locandina.jpgIl Treno per il Darjeeling (film di Wes Anderson, 2008)

Quando si parla Wes Anderson e del suo cinema non esistono mezze misure: o lo si ama follemente o lo si detesta neanche troppo cordialmente. Io faccio parte della prima categoria, fin dai tempi de I Tennenbaum.
E proprio come ne I Tennenbaum e nel precedente Le avventure acquatiche di Steve Sissou, il regista texano torna a parlare di rapporti all’interno di un nucleo familiare a dir poco disfunzionale (cosa era d’altronde l’equipaggio del Bellafonte se non una gran famiglia allargata?). In questo caso i protagonisti sono tre fratelli, i Whitman: Francis (Owen Wilson), Peter (Adrien Brody) e Jack (Jason Schwartzman), che non si parlano dalla morte del padre avvenuta un anno prima. Come di prassi nell’estetica Andersoniana i protagonisti, sono rigorosamente aristocratici o comunque upper-class, strampalati, con sindromi maniaco depressive e si muovono in un mondo che sembra la loro trasposizione in technicolor. Ma sono anche persone estremamente complesse, fragili e affascinanti, con un vissuto denso che impariamo a conoscere man mano che il film scorre.
L’occasione che li riunisce è un viaggio spirituale in India, organizzato dal fratello maggiore Francis- per cercare di ricostruire il loro rapporto, ritrovare la madre che li ha abbandonati (Angelica Houston attrice-feticcio del regista) e che ora si e’ fatta suora e vive in un monastero-eremo e non ultimo venire a capo delle loro vite complicate. Ognuno dei tre, infatti, porta con se un fardello esistenziale non indifferente: Francis non sa più se vuole vivere o meno e ha tentato il suicidio in moto – Peter scappa dalla moglie incinta che peraltro ama, perché ha paura di diventare padre e Jack è uno scrittore dal cuore in pezzi che si riduce a controllare la segreteria telefonica dell’ex-fidanzata dai telefoni delle piccole stazioni ferroviarie in cui s’imbatte.

L’India di Anderson per contro è coloratissima, magnificamente fotografata, caleidoscopica. Di fatto è anch’essa protagonista e non mero sfondo: impossibile non innamorarsene. L’incipit del film vale da solo il prezzo del biglietto ed è sicuramente il migliore visto al cinema negli ultimi tempi. Un malinconico Bill Murray insegue – inutilmente – il treno che sta partendo senza di lui, quando viene sorpassato dal più giovane Adrien Brody sulle note di “This Time Tomorrow” dei Kinks. Quando Brody riesce, infine, a salire all’ultimo momento, gli lancia un sguardo carico di comprensione e malinconia prima di unirsi ai fratelli. Decisamente sopra le righe e vincente è la colonna sonora, che mischia canzoni prese in prestito da Bollywood, una ballata stralunata di Peter Sarsted, i Kinks e gli Stones. Ancora meglio – se possibile – fà Hotel Chevalier, il corto che precede il film introducendo il personaggio di Jack e mostrandoci un’incantevole Natalie Portman in tutta la sua bellezza nature.

Come i road movie di formazione ci insegnano, più importante della destinazione, alle volte, è il percorso che si compie. E’ in questa dimensione, nel viaggio inteso in senso fisico e spirituale, che il film si esprime al meglio funzionando sia nei momenti più comici sia in quelli drammatici, riuscendo a toccare in maniera stramba, bizzarra e agrodolce temi profondi e delicati. Prima di tutto quello della fiducia persa e poi riacquistata; poi delle ferite provocate dall’abbandono e degli strascichi che ne conseguono, cicatrici (fisiche e non) comprese; infine dell’ amore di cui tutti abbiamo disperatamente bisogno anche quando non siamo capaci di chiederlo in nessun modo.
Tutto esemplificato dalle difficoltà di comunicazione tra fratelli che non possono rinunciare a unirsi in fazioni estemporanee, nascondendosi segreti, azzuffandosi, chiudendosi in se stessi fino a chiedersi (come fa Jack nel momento più duro del viaggio): “Chissà se noi tre saremo potuti essere amici nella vita, non come fratelli, come persone”. E un malinconico e disincantato Peter risponde sconsolatamente: “Probabilmente avremo avuto più chance, direi…”.

Il tutto poggia, comunque, su una leggerezza invidiabile, sulla capacità di dire le cose fra le righe e in maniera poetica, non appesantendo mai la visione anche quando il film sembra incepparsi, prima di ripartire.
Di fronte a tanti dubbi e incertezze, è anche un film pieno di speranza, dove si può imparare che alle volte le parole più importanti, quelle che ti bruciano dentro e che non sei mai riuscito a pronunciare, puoi dirle rimanendo in silenzio e guardandoti negli occhi. In fondo se ce la possono fare i Whitman, con tutte le loro nevrosi e i loro problemi, ce la possiamo fare anche noi. Non credete ?

Il viaggio degli Who

amazing-journey.jpgAmazing Journey: The Story of the Who (film di Paul Crowder e Murray Lerner, 2007)

Di tutte le band che hanno fatto la storia del rock inglese dei Sixties, gli Who sono senza dubbio quelli che hanno avuto un rapporto migliore con l’aspetto visivo della materia rock, sia quantitativamente che qualitativamente. Basta pensare alle trasposizioni per il grande schermo di Tommy e Quadrophenia, fino ad arrivare all’ormai storico The Kids Are Alright di Jeff Stein (e, ovviamente, senza dimenticare l’incendiaria apparizione in Rock’n’Roll Circus, di Stonesiana memoria).

Se era dunque inevitabile, visti i tempi (No Direction Home e Shine a Light docet), anche per loro la celebrazione sotto forma di documentario, un po’ meno scontato era l’esito dell’operazione. La visione integrale dei due dischi (più tre ore di contenuti) che compongono Amazing Journey: The Story of the Who scaccia però ogni plausibile dubbio sulla bontà dell’operazione.
Il primo disco contiene il film vero e proprio che, guidato dalla solida regia di Murray Lerner (già regista delle gesta di Dylan al Newport folk festival), ripercorre la storia del gruppo attraverso interviste appositamente organizzate per la pellicola con Pete Townshend e Roger Daltrey, pescando poi a piene mani nelle immagini d’archivio per i contributi di Entwhistle e Moon.
Il tutto è ulteriormente arricchito dagli interventi di personaggi cruciali nella carriera del gruppo: il primo manager (assieme a Kit Lambert) Terence Stamp e quello successivo (Billy Curbisheley) e poi Glyn Johns, e altri ancora.

L’ insieme delle testimonianze, e il rinnovato rapporto di stima e intesa reciproca fra Townshend e Daltrey, fanno in modo che soprattutto le loro dichiarazioni traccino un quadro preciso dell’evoluzione del gruppo nella sua lunghissima carriera, non lesinando in spontaneità (e, perché no, anche in egocentrismo, quando si tratta di spiegare i rapporti di forza in un gruppo formato da quattro individui diversissimi fra loro e – per questo – in una situazione di tensione permanente).
Non c’è buonismo o falso compiacimento nel racconto, anzi: se The Kids are Alright era la storia degli Who vista attraverso la lente deformante degli occhi di un fan, questo film fotografa la band senza filtro alcuno e diventerà molto probabilmente la bibbia per gli amanti del gruppo.

Le immagini a supporto delle interviste sono di grande qualità e coprono ogni periodo dell’epopea del quartetto di Sheperd Bush: dagli albori nei Sixties, fino alla registrazione di “Real Good Looking Boy”. Unica pecca, da questo punto di vista, è che bisogna accontentarsi di vedere solo degli spezzoni, piuttosto che le esecuzioni integrali dei pezzi dal vivo… ma è un dettaglio su cui si può chiudere un occhio.
Nel caso non ne aveste avuto abbastanza, a condire il tutto ci sono testimonianze varie di fan d’eccezione come Noel Gallagher, Sting, The Edge ed Eddie Vedder (anche se mi domando perché non ci sia Paul Weller), e un secondo dischetto – A Six Quick Ones – che è una piccola chicca.
Oltre a quattro capitoli dedicati singolarmente a ogni membro del gruppo (quello di Keith è sicuramente il più suggestivo), che analizzano da un punto di vista musicale le qualità dei quattro, ci sono le immagini finora rimaste inedita di uno dei primissimi concerti in assoluto della band, al Railway Hotel: pura manna per gli occhi e le orecchie…

What we do is secret…

germsdarbylastgig.jpgE’ stato postato su Youtube un nuovo trailer del film (che tarda a uscire, nonostante sia da tempo pronto e terminato) dedicato a Darby Crash e basato parzialmente sulla sua biografia Lexicon Devil. Il titolo della pellicola è What We Do Is Secret e il protagonista è impersonato da Shane West, già nel cast di ER (il medical drama che ormai prosegue da quasi 15 anni).

Il film è incentrato sull’ultima parte della vita di Crash, ovvero sul suo “five years plan”, cioè il programma per cui in cinque anni voleva diventare una leggenda per poi suicidarsi.
Pare che alla lavorazione abbiano partecipato, in veste di consulenti, Pat Smear e alcuni membri della famiglia di Darby Crash.

Non è ancora chiaro quando la pellicola uscirà e in che veste (nelle sale? Solo su dvd?), mentre è stato reso noto che tra i cameo ci sono anche quelli di Penelope Spheeris e Captain Sensible.

Brian Jonestown Massacre & Dandy Warhols: Dig!

digdvd.jpgDig! (un film di Ondi Timoner, 2004)

Courtney Taylor dei Dandy Warhols è la voce narrante di Dig!, rockumentary sulla sua band e – soprattutto – sul leader dei Brian Jonestown Massacre (Anton Newcombe), assemblato con una minima parte del materiale racconto in sette anni di riprese.
Il punto di partenza è il 1995: l’anno in cui i due gruppi si incontrano e diventano amici. Da qui inizia la crociata di Newcombe, che dall’alto del suo idealismo tossico vorrebbe fare esplodere l’underground e iniziare una rivoluzione musicale. Lui con i suoi Brian Jonestown Massacre, seguito dai Dandy Warhols. All’inizio tutto sembra così deliziosamente avventato e scriteriato che ci si crede quasi: una crociata underground, guidata da un personaggio che sembra uscito da un incubo post sbronza e si nutre di sniffate di coca e sorsate di alcool. Ma compone musica geniale.
I Dandy Warhols, in tutto questo, sono quasi fratellini minori adoranti, tessono le lodi di Newcombe e si uniscono al carrozzone con tutto l’entusiasmo dei nuovi arrivati.

Nel 1996, però, l’incantesimo inizia a mostrare i primi segni di cedimento. I Dandy Warhols, infatti, si trovano con un contratto major tra le mani (Capitol) e devono incidere il loro primo album; i Brian Jonestown Massacre sono ancora infognati nella palude dell’oscuro underground. Non che ci sia nulla di male nel frequentare quei luoghi, ma… forse non era ciò che Newcombe aveva in mente. E’ così che le strade dei due gruppi iniziano lentamente a divergere. Così come i comportamenti di Newcombe si fanno più estremi, folli, drogati e incoerenti.
Da questo momento è tutto in discesa: per i Dandy Warhols (che – comunque vogliamo metterla – arrivano a un buon successo, anche se l’industria discografica non fa loro alcuno sconto) e per Anton Newcomb (che precipita nell’eroina e nel rancore, arrivando a spedire pallottole ai membri dei DW).

Un film-documentario non imprescindibile, a onor del vero, ma piuttosto godibile, soprattutto negli spezzoni live dei BJM – che uniscono una grande qualità della loro musica alla follia della totale imprevedibilità. Dei Dandy Warhols, invece, azzarderei che i momenti memorabili sono quelli (non tantissimi, purtroppo: il regista è stato avaro) in cui Zia McCabe si esibisce in topless e scuote le tettine. Un po’ poco? Esatto.

Dig! fondamentalmente è la vicenda di un musicista di talento immenso, che vorrebbe diventare famoso e amato da tutti, ma è vittima della necessità di essere sempre, comunque, ovunque e a ogni costo un fottutissimo ribelle. A costo di fregarsi bellamente con le proprie mani.
Per amanti dei loser e delle storie sbagliate.
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Love Story: il documentario

Buone notizie per tutti i fan dei Love e di Arthur Lee.
E’ prevista per giugno l’uscita in dvd, purtroppo per ora solo sul mercato britannico, del film-documentario Love Story. La pellicola è stata presentata lo scorso anno al Los Angeles Film Festival, senza però trovare una distribuzione nelle sale; si preannuncia come il ritratto definitivo della band, grazie alla grande cura riposta nella realizzazione e all’elevato numero di persone intervistate.

Oltre a una lunga intervista con Arthur Lee (l’ultima rilasciata prima di morire) e a interviste d’epoca con Bryan MacLean, spiccano i contributi dei tre membri superstiti Johnny Echols, Michael Stuart Ware e Alban “Snoopy” Pfisterer; e poi ancora gli interventi del boss della Elektra Jac Holzman, del produttore Bruce Botnick e del batterista dei Doors John Densmore.
Ad arricchire ulteriormente il piatto ci pensano le testimonianze di fan della prima ora come Bobby Gillespie e Mani (Primal Scream), John and Mick Head (Shack) e anche un’insospettabile come il sindaco di Liverpool, Ken Livingstone.
Per saperne di più e vedere qualche bello spezzone del film, basta visitare la pagina Myspace dedicata: www.myspace.com/lovestorydocumentary.
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Control: less Pampers, more guitars

moviecurtis.jpgControl (un film di Anton Corbijn, 2007)

Control. Sensazione tipo torta un po’ così, senza ripieni o fragranze particolari. Quei sapori noti, non sgradevoli, ma che neppure ingolosiscono. Ecco, questo film diciamo che si poteva vedere (brutture ben peggiori hanno solcato lo schermo piatto del mio pc), ma non mi ha dato la scossa. Frettoloso negli snodi, pulitino nella regia, patinato nonostante il bianco e nero pseudo-vintage ed esistenzialista (un trucchetto visivo vincente per accalappiare la Now Generation quando cade in depressione perché il blackberry non funziona?).

Ebbene devo dirlo: il tormento che la mia fantasia ha da sempre attribuito a Curtis, qui – in questa pellicola – ricorda invece, vagamente, quelli dei protagonisti delle soap delle 14:00. E ciò è male. Il fatto è che per Curtis ci feci una malattia, una dozzina d’anni orsono. Trip pesante, acuito dalla coincidenza che si ammazzò (o iniziò a farlo) praticamente il giorno del mio decimo compleanno. Coincidenza insignificante, ma anni fa mi piacque molto. E così i JD mi restano sempre lì, in un angolino, accucciati al caldo, anche se li ascolto raramente. Ma quando succede è come rivedere un amico dopo anni.
Confesso anche di essermi comprato, qualche mese fa. Un’edizione vinilica portoghese di Still perché era vecchia, pesante, libidinosamente feticistica e con una copertina un po’ buffa, con le scritte in portogao-ao-ao. Questo per darvi un quadro clinico di chi sta scrivendo.

Il film, dicevo. Nulla di esaltante, ma anche nulla di orribile.
Non mi quadra del tutto la gestualità del protagonista nei panni di Curtis (forse troppo esagerata), ma purtroppo ho visto un solo video live dei JD, qualche anno fa, e i ricordi sono sfocati. Dovrò ri-documentarmi.
Ho notato invece una piccola imprecisione: la leggenda narra che durante la sua ultima notte Curtis abbia ascoltato The Idiot (e l’hanno messo in sceneggiatura), ma abbia anche visto La ballata di Stroszek (di W. Herzog): di questo nessuna traccia.
Bella, ma forse un po’ troppo innocente e virginale l’amante belga di Curtis. Convincente la moglie. Fighissimo il manager. Bello il fatto che gli attori nei panni dei Joy Division sembrassero avere idea di come si suonano gl istrumenti che avevano in mano.

Momento topico da stretta al cuore: Ian rientra da una serie di concerti. Sacco in spalla, nerovestito, sfatto. Entra in casa e la prima visione che gli si presenta è la figlia di pochi mesi nel box; subito dopo una parata di pannoloni e mutandoni stesi ad asciugare, penzolanti dal soffitto della cucina. Uno sguardo, un respiro ed esce di casa, subito, senza nemmeno salutare. Come un fantasma.
Cinico? Sì. Ma forse è la chiave del film, che in vena di fine umorismo riassumerei in “un less Pampers, more guitars”.

Chissà se lo vedremo in Italia, tra l’altro… ad ogni modo, non è una tragedia. Se siete fan ve lo papperete (o già ve lo siete pappato) in inglese; magari sottotitolato.
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Joe Strummer: il film

strummermovie.jpgThe Future is Unwritten (2008, di Julien Temple)

Quando le luci in sala si spegneranno e verranno illuminate da un inestinguibile falò popolato dagli aneddoti di intimi, sconosciuti e illustri amici-musicisti di Mr. Joe Strummer… bene, proprio in quel momento, dimenticatevi la militanza oltranzista, l’epopea punk-proletaria e l’ortodossia stalinista che i Clash ci hanno insegnato fino a oggi. Se il mito prolifera e continua a diffondersi (attraverso le eredità sonore ramificate e rigogliose come piante rampicanti in tutto il pianeta, dai Rancid a Manu Chao, dai Rage Against the Machine ai Los Fabulosos Cadillac), qui è il lato pubblicamente celato a emergere, dopo anni di regime musicale. Ed è sicuramente poco cinematografico. Anche per un regista smaliziato e che-la-sa-lunga-sul-punk come Julien Temple (autore dell’altro film-documentario, guarda caso, proprio sulla grande truffa del rock and roll delle pistole del sesso).

Il problema di Temple è che mentre cimentarsi con Sid Vicious e soci significò girare spezzoni comedy, un cartone animato e liquidare la storia con un po’ di effetti speciali e fumo, il narrare la parte debole, controversa, depressa del punk e i relativi tormenti esistenziali del leader dei Clash è un atto doloroso. Qualcosa che rientra in quel materiale non accessibile e non fruibile dalla macchina da presa, una specie di montaggio proibito.
Perché il cinema funziona quando è finzione, quando asseconda la natura circense del rock and roll; ma quando gli attori principali si smascherano, quando le “mentite spoglie” della verità si palesano attraverso la forma documentaristica, cinema e rock and roll diventano altro. Un’alterità indefinita e indefinibile.

In questo costante senso di indeterminatezza il regista britannico colloca, appunto, Joe Strummer: la carriera, le scelte militanti, i dubbi, la sua esistenza con i Clash e la sua sopravvivenza dopo i Clash.
Se c’è stato un male nella vita di Strummer, in The Future is Unwritten pare esser stata proprio la band che l’ha portato al successo, quella che agli esordi gli ha fatto scrivere canzoni infuocate come “White Riot”, inni generazionali come “London Calling” fino a future colonne sonore per spot di jeans come “Should I Stay or Should I go”.

Joe Strummer è una voce narrante biascicata (come lo era la sua) che per l’intera durata del film sembra provenire da un’emittente clandestina che trasmette da qualche posto sperduto. Forse dal Tibet, dove i monaci buddhisti sono i rinnovati sandinisti degli anni Ottanta.
I Clash sono raccontati come un trauma, analogamente a quello che furono i Pink Floyd per Barrett. E ditemi se Joe non somiglia tanto a Syd, nel suo girovagare senza sosta, come un barbone alcolizzato, uno scoppiato in cerca di rave e musica techno per tentare disperatamente di agganciarsi ancora a qualcosa. Ma tutto frana. I Mescaleros, le canzoni spersonalizzate tra musica elettronica, etnica, ska, e quant’altro, pur di non scomparire… per se stesso più che per il suo pubblico.

Il merito di questo film-documentario è fugare ogni dubbio sul fatto che il futuro dei Clash non è stato ancora scritto perché i Clash non erano stati concepiti per avere un futuro. Il vero inno nichilista, il “no future” dei Pistols – in realtà – doveva cantarlo Joe Strummer.